Il 29 gennaio lo chef ha omaggiato la sua Calabria con una cena regionale a sei mani con gli chef Salvatore Iuliano e Antonio Arcieri: l’haute cuisine può incontrare e abbracciare la tradizione. Ecco un foto-servizio e intervista di Raffaele D’Angelo

Salvatore Morello, classe 1985, ha avuto numerose esperienze all’estero in cucine stellate, tra Francia e Germania. Dal 2021 è tornato in Italia: è il nuovo chef del ristorante di haute cuisine Inkiostro di Parma. Il respiro internazionale della sua cucina non si traduce in un rigetto della cucina tradizionale, ma anzi ne costituisce un’innovativa rivisitazione: lo scorso 29 gennaio Morello ha organizzato una cena calabrese da Inkiostro, assieme agli chef Salvatore Iuliano e Antonio Arcieri.

Domanda: Salvatore, come è nata l’idea della cena calabrese che hai organizzato?

Risposta: «Con Inkiostro abbiamo già realizzato cene regionali: recentemente io e il maître Daniele Molinaro, anche lui calabrese, abbiamo deciso di omaggiare la nostra terra, dando vita a una cena calabrese a sei mani. Abbiamo coinvolto anche Salvatore Iuliano, già conoscenza di Inkiostro e ora chef al George Restaurant di Heinz Beck a Taormina, due stelle Michelin, e Antonio Arcieri, chef di Arco di Paco Pérez, a Danzica, due stelle Michelin. Ci sono tanti calabresi che lavorano in cucina ma che non sono conosciuti, perché magari lavorano all’estero, come ho fatto io».

Nel tuo percorso lavorativo hai lasciato la Calabria e l’Italia: potresti raccontarci come si è sviluppata la tua crescita personale e professionale?

«Sono nato a Catanzaro e ho studiato all’IPSSEOA di Soverato, dove mi sono diplomato nel 2000. Dopo uno stage a Torino negli ultimi anni di scuola, ho lavorato per diverse stagioni estive in Calabria. Ho avuto la fortuna di svolgere alcuni stage in Francia in ristoranti tre stelle Michelin, tra cui uno breve con Paul Bocuse e uno più lungo con Alain Ducasse. Qui ho approfondito le basi della cucina francese, di cui sono un profondo estimatore. Non posso poi dimenticare le esperienze al ristorante due stelle Fischers Fritz del Regent Hotel di Berlino o l’Essen Zimmer dell’Adlon Hotel. Sempre in Germania ho poi lavorato con Joachim Wissler, nel ristorante tristellato Vendôme. Qui ho conosciuto Daniel Pape: grazie a lui ho accettato la proposta di diventare secondo chef nel ristorante DaVinci di Coblenza, due stelle Michelin».

Nella tua esperienza lavorativa hai avuto modo di praticare tre scuole di cucina di alto livello: italiana, francese e tedesca. Questa forse è meno conosciuta, ma ugualmente importante

«Assolutamente, ogni cucina ha le sue peculiarità. La cucina tedesca è di alto profilo, è stata il filo conduttore dell’alta cucina degli ultimi trent’anni. Generalmente si associa alla Germania una cucina semplice, che in realtà è presente in qualunque Paese. Invece bisogna considerare che la Germania si trova nel centro dell’Europa ed è caratterizzata da una società multietnica e multiculturale. La cucina francese, poi, ha influenzato molto quella tedesca: le corti tedesche erano molto frequentate dagli chef francesi, che hanno lasciato la loro impronta».

Come definiresti il tuo stile in cucina?

«Sono stato all’estero per molti anni e ho conosciuto cucine diverse. Ho cercato sempre di essere fedele al mio background e al mio percorso, che si è arricchito di volta in volta, grazie anche ai tanti colleghi che ho conosciuto. Già da giovane ho iniziato a vagare di cucina in cucina, e a ogni incontro le mie tecniche si intersecavano e arricchivano, si modificavano e cambiavano. Nel tempo ho ripulito lo stile della cucina mediterranea, vicina alle mie origini, ma nella quale non mi riconoscevo più del tutto. Eppure, ho sempre mantenuto una sola base, quella della cucina classica. Quando mi guardo indietro, nel mio cammino, rivedo le tante persone incontrate: associo visi, sapori e odori che si mescolano e si integrano regalandomi nuove emozioni, che poi cerco di ricreare nelle mie composizioni. Attualmente sono molto affascinato dalla cucina asiatica: sfrutto i suoi aromi e le sue spezie per arricchire la cucina classica e aggiungere elementi di contemporaneità. Apprezzo molto le lunghe fermentazioni della cucina asiatica, i suoi aromi e l’umami, che dà forza e sapore ai piatti».

Dopo l’estero, finalmente torni in Italia, a Parma. Com’è stato per te lavorare qui?

«Nonostante la mia giovane età ho bruciato molte tappe: Parigi, Lione, Cannes, Berlino, Francoforte. E ora sono approdato a Parma. Dopo la nomina del 2015 a Città Creativa UNESCO per la gastronomia, a Parma si respirava certamente un’aria di attesa: le aspettative erano alte. In questo ambiente in fermento ho scelto Inkiostro e lui ha scelto me. È un ristorante di alto profilo, di proprietà della famiglia Poli, un simbolo della ristorazione di qualità. Parma mi è piaciuta molto per la sua vivibilità ed ero entusiasta all’idea di poter migliorare ulteriormente la mia cucina».

Come hanno vissuto i clienti di Inkiostro il cambio di chef?

«Sicuramente all’inizio c’è stata molta curiosità. La cucina del precedente chef, per quanto molto prestigiosa e di alto profilo, era molto sperimentale e forse in parte distante dal gusto parmigiano. Alcuni clienti venivano qui, incuriositi dalla sua cucina, ma difficilmente tornavano. Adesso invece la clientela di ritorno è fortemente aumentata. La mia è una cucina internazionale, con base classica: una ricetta che certamente piace alla città. Io e la mia brigata in cucina lavoriamo sodo e mettiamo al centro di tutto la nostra clientela. Dal momento che Inkiostro è un ristorante molto importante e noto, il cambio di guardia ha destato scalpore e ha creato curiosità, anche perché il mio nome era poco conosciuto, perché ho lavorato molto all’estero. La nostra è una cucina classica francese, con numerose contaminazioni asiatiche. Utilizzo l’umami per creare i giusti contrasti, e per ogni menu usiamo dalle trenta alle quarantacinque verdure diverse, tutte di stagione. I clienti, poi, apprezzano la cottura perfetta dei miei piatti. La mia haute cuisine è senza dubbio apprezzata».

Hai detto di essere un estimatore della cucina asiatica. La Calabria utilizza molte conserve di verdure fatte in casa, messe sotto sale e sotto peso. In parte queste tecniche ricordano quelle di fermentazione della cucina asiatica: è una sorta di ritorno alle origini?

«Esattamente, il concetto è semplice: raccogliere il cibo nel periodo di abbondanza, trasformarlo e conservarlo. Durante questo periodo di conservazione si sviluppano aromi e sentori particolari, inimitabili. È la stessa cosa che è successa con i vini calabresi, che hanno avuto una grandissima crescita negli ultimi dieci anni in termini di numeri, di cantine e di valorizzazione dei tantissimi vitigni autoctoni. Non a caso, per la nostra cena, abbiamo scelto un vino di un produttore “archeologo”, come ama definirsi Gabriele Bafaro, che produce in anfora interrata, come si usava nell’antica Grecia e poi nelle colonie dell’Italia meridionale. Alla cena parteciperanno anche altri piccoli produttori: vogliamo che possano farsi conoscere e far conoscere i loro ottimi vini, anche al di fuori del territorio meridionale».

Se pensi alla Calabria e alla tua infanzia, quale piatto ti viene in mente?

«Adoro il morsello di baccalà, che viene preparato con pomodoro e viene condito con una salsa piccante. Mi riporta a quando ero piccolo e mi rende felice con poco».

Immagina di proiettarti nel futuro: come ti vedi tra dieci anni?

«Mi vedo qui a Parma. La città mi è piaciuta da subito, la mia famiglia è stata qui per alcuni mesi. Vorrei che i miei figli crescessero a Parma: credo sia un posto tranquillo e pieno di opportunità, anche per loro. Poi non posso che vedermi ancora qui, a Inkiostro: ho un ottimo rapporto con la proprietà e sto stabilendo un’ottima intesa con la mia clientela».