Le famiglie hanno pagato di tasca propria 704 milioni di euro in più (+7,6%). In sei anni (2017-2022), la spesa farmaceutica a carico delle famiglie è cresciuta di 1,84 miliardi di euro (+22,8%)
Senza il Terzo Settore almeno 1/5 dell’offerta sanitaria non sarebbe garantito
Nell’anno in corso, 427.177 persone (7 residenti su 1000) si sono trovate in condizioni di povertà sanitaria. Hanno dovuto, cioè, chiedere aiuto ad una delle 1.892 realtà assistenziali convenzionate con Banco Farmaceutico per ricevere gratuitamente farmaci e cure. Rispetto alle 386.253 persone del 2022, c’è stato un aumento del 10,6%.
Intanto, la spesa farmaceutica delle famiglie aumenta, ma la quota a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) diminuisce. Nel 2022 (ultimi dati disponibili), la spesa farmaceutica totale è pari a 22,46 miliardi di euro, 2,3 miliardi in più (+6,5%) rispetto al 2021 (quando la spesa era di 20,09 miliardi). Tuttavia, solo 12,5 miliardi di euro (il 55,9%) sono a carico del SSN (erano 11,87 nel 2021, pari al 56,3%). Restano 9,9 miliardi (44,1%) pagati dalle famiglie (erano 9,21 nel 2021, pari al 43,7%).
Significa che, rispetto all’anno precedente, le famiglie hanno pagato di tasca propria 704 milioni di euro in più (+7,6%). In sei anni (2017-2022), la spesa farmaceutica a carico delle famiglie è cresciuta di 1,84 miliardi di euro (+22,8%).
A sostenere di tasca propria l’aumento sono tutte le famiglie, anche quelle povere, che devono pagare interamente il costo dei farmaci da banco a cui si aggiunge (salvo esenzioni) il costo dei ticket.
È quanto emerge dall’11° Rapporto Donare per curare – Povertà Sanitaria e Donazione Farmaci realizzato con il contributo incondizionato di IBSA Farmaceutici e ABOCA da OPSan – Osservatorio sulla Povertà Sanitaria (organo di ricerca di Banco Farmaceutico). I dati sono stati presentati stamane 5 dicembre in un convegno promosso da Banco Farmaceutico e AIFA.
Senza il Terzo settore, la tenuta del SSN sarebbe a rischio. Le non profit attive prevalentemente nei servizi sanitari sono 12.578 (e occupano 103 mila persone). Di queste, 5.587 finanziano le proprie attività per lo più da fonti pubbliche. Tenendo conto di questo solo sottoinsieme, il non profit rappresenta almeno 1/5 del totale delle strutture sanitarie italiane (oltre 27.000), generando un valore pari a 4,7 miliardi di euro.
Si conferma, infine, la relazione circolare tra povertà di reddito e povertà di salute: la percentuale di chi è in cattive o pessime condizioni di salute è più alta tra chi si trova in condizioni economiche precarie rispetto al resto della popolazione (6,2% vs. 4,3% nel 2021). La qualità della vita legata a gravi problemi di salute, inoltre, è peggiore per chi ha meno risorse rispetto a chi ha un reddito medio-alto (25,2% vs. 21,7%). Le risorse economiche non preservano, di per sé, da gravi patologie (specie all’aumentare dell’età), ma consentono di fronteggiarne meglio le conseguenze. A compromettere lo stato di salute di chi è economicamente vulnerabile, contribuisce la rinuncia a effettuare visite specialistiche, che è cinque volte superiore al resto della popolazione.
«Attraverso il rigore del metodo scientifico dell’Osservatorio sulla Povertà Sanitaria, vogliamo fornire un contributo di conoscenza su alcuni aspetti essenziali per qualificare la nostra società; in particolare, quest’anno ci preme sottolineare che tante persone in condizioni di povertà non riescono ad accedere alle cure non solo perché non hanno risorse economiche, ma anche perché, spesso, non hanno neppure il medico di base, non conoscono i propri diritti in materia di salute, o non hanno una rete di relazioni e di amicizie che li aiuti a districarsi tra l’offerta dei servizi sanitari. Senza il Terzo settore (e, in particolare, senza le migliaia di istituzioni non profit, di volontari e di lavoratori che si prendono cura dei malati), non solo l’SSN sarebbe meno sostenibile, ma il nostro Paese sarebbe umanamente e spiritualmente più povero», ha dichiarato Sergio Daniotti, presidente della Fondazione Banco Farmaceutico Ets.
Hanno partecipato alla presentazione del Rapporto presso l’ AIFA di Roma
Interventi: Giancarlo Rovati, Università Cattolica, Coordinatore di OPSan; Gian Carlo Blangiardo, Presidente di Istat; Padre Camillo Ripamonti, Presidente dell’Associazione Centro Astalli Odv; Maria Chiara Gadda, Vicepresidente della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati. Le Conclusioni di Sergio Daniotti, Presidente di Fondazione Banco Farmaceutico Ets. Ha moderato l’incontro Paolo Nessi, Responsabile della comunicazione di Banco Farmaceutico
Rapporto del Censis: la spesa sanitaria pubblica in Italia ha registrato un meno 4%, in Francia un più 15%, in Olanda più 16% e in Spagna più 8%
Gli anziani sono oggi il 25% della popolazione mentre nel 2050 aumenteranno di ben 4,5 milioni, raggiungendo il 34,5% della popolazione totale. Non a caso la situazione sanitaria nel prossimo futuro sarà ancora di più in sofferenza per le liste di attese negli ospedali pubblici sempre più insostenibili.
La rilevazione del Censis fa una fotografia abbastanza realistica della realtà italiana, soprattutto per gli anziani, coloro che vivono con pensioni di fame, con l’aggravante di dover ricorrere spesso a medicinali e a ricoveri ospedalieri; non a caso la situazione sanitaria nel prossimo futuro sarà ancora di più in sofferenza per le liste di attese sempre più insostenibili.
Da un confronto internazionale emerge che nel periodo 2012/2019 in Italia la spesa sanitaria pubblica ha registrato un meno 4%, in Francia un più 15%, in Olanda più 16% e in Spagna più 8%. Bastano queste percentuali drammatiche per l’Italia, per capire quanto siamo indietro rispetto all’Europa in un settore, la sanità, così importante per i nostri figli e i nostri genitori.
Abbassiamo la voce davanti al dolore
Metto assieme due storie diverse, che forse non lo sono. Che certamente raccontano molto di noi. Di questo Paese, così amaramente fotografato dallo studio del Censis pubblicato ieri e che sul sito de La Stampa abbiamo titolato con preoccupazione: “Un’Italia di sonnambuli, intrappolati nell’emotività”. Un pezzo di Paolo Baroni. Bello. Lucido. Preciso. In sintesi, dice il Censis, in un paese in cui l’incomunicabilità generazionale è diventata “siderale”, più si è giovani più si teme il futuro. Soprattutto lo si immagina senza lavoro. Non solo perché non c’è. Perché non lo si vuole. Non si vuole quella gabbia. Quel ricatto deprimente fatto di retribuzioni imbarazzanti e di prospettive desolanti. Quell’ascensore sociale al contrario che conosce unicamente il tasto –1 e fa pensare a sei giovani su dieci di contare poco o persino niente.
Viviamo a lungo, ma siamo sempre più soli, sempre più anziani, sempre più sfiduciati. Abbiamo paura di tutto. Guerre, malattie, crisi economiche, distruzione del welfare, bugie che troviamo in rete e che rimbalzano come virus fuori controllo nel nostro quotidiano.
Passeremo il tramonto dei nostri giorni in miniappartamenti, abbandonati a noi stessi, o in una Rsa, banalmente perché non avremo parenti, perché non mettiamo al mondo più figli. Spaventoso.
Che ci facciamo con questo macro-ritratto del declino? Lo subiamo, incrociamo le dita o cambiamo rotta? Ci arrivo. Ma prima mi rifugio in due storie, che vanno ostinatamente in senso contrario. Una è piccola, personale, capitata qui, a Torino, in via Lugaro, fuori dal giornale. Sono le sette di sera, esco per andare a prendere qualcosa contro il mal di testa in farmacia. Mi passa di fianco un signore anziano (tra gli ottanta e gli ottantacinque direi a occhio), un cappotto leggero, le mani lunghe, eleganti, dei vecchi mocassini, molti capelli bianchi spettinati dal vento gelido. Ha le lacrime agli occhi, il respiro affannoso, sento che tra i denti mastica sempre le stesse parole: «Dove sei, dove sei, dove sei?». Gli dico: «Mi perdoni, la posso aiutare?”. Lui mi guarda implorante e sottovoce risponde: “Sì, ho perso mia moglie».
È una frase strana, può volere dire molte cose. Lui capisce il mio stupore e aggiunge: «È uscita di casa di nascosto, ha l’Alzheimer, potrebbe essere ovunque». Si incammina verso piazza Nizza, io lo seguo istintivamente. Ha le gambe magre, eppure solide, che all’improvviso gli consentono di accelerare il passo. Si illumina: «Laura, Laura, Laura». L’ha vista. Vicina all’edicola. Lei ha visto lui. Le corre incontro ed è bello e strano il modo lento e velocissimo in cui corre. La stringe tra le braccia e lei lascia fare, si fida, lo sente quel corpo amico. Lui dice: «Tesoro, non prendere freddo, ti porto a casa». E le sistema i capelli con la mano. Laura ha un sorriso rilassato, lo sguardo lontano, tranquillo, lo segue docilmente, aggrappata al suo braccio. Passano di fianco a me e lui, senza guardarmi, sussurra una frase mi che lascia secco: «La amo da 65 anni». Il mal di testa è sparito. Invidio quella donna (lo so, è cretino, eppure). E invidio lui. La sua voce bassa. Il suo amore che non finisce. La sua capacità di cura. Ci sono le statistiche, vero. Poi ci sono gli individui. Le storie personali. Qualcuno è fatto anche così. Si salva a bassa voce. Ci salva a bassa voce.
La seconda storia, diversa, cattiva. Se n’è parlato giustamente molto. Ancora Torino. Questa volta Corso Unità d’Italia, un vialone che arriva sparato nel cuore della città. Un uomo di 47 anni, Marco Nebiolo, noto professionista, guida la sua auto verso casa. Arrivato a un semaforo fa la cosa giusta: si ferma al giallo. La macchina che lo segue lo tampona. A bordo ci sono tre persone sovraeccitate, già in lite tra loro. Una guardia giurata, la sua compagna e il figlio di lei, un ragazzino di sedici anni. Scendono dalla macchina come furie e affrontano Nebiolo a brutto muso. Il ragazzino agli insulti aggiunge un cazzotto spaventoso che scaraventa Nebiolo per terra facendogli perdere i sensi. I tre se ne vanno. Qualcuno chiama un’ambulanza e Nebiolo arriva all’ospedale con un brutto trauma cranico. Secondo i medici, se avesse avuto dieci anni in più sarebbe morto. Salvini twitta: «Le norme del codice della strada non sono sufficienti a punire violenze del genere: serve il carcere». Verrebbe da dirgli che è già previsto per chi aggredisce e ferisce un altro essere umano. Ma sarebbe inutile. Lo sa bene. Se ne frega. Aspetta solo che succeda qualcosa di sgradevole per intromettersi a prescindere e dire: più galera, più manette. Come se il punto fosse quello. Non lo è. E a spiegarglielo, con una delicatezza di fronte alla quale bisognerebbe inchinarsi, arriva la moglie di Nebiolo, Manuela. Dice: «Chi ha sbagliato dovrà assumersi le sue responsabilità, ma non sarà il carcere a fare crescere quel ragazzo che ha l’età di mio figlio. Non sono stupita da lui, ma dagli adulti che erano con lui. Quando vedi tua madre che si comporta in quel modo, che urla e che insulta, e un altro uomo che non fa nulla per fermarti, pensi che sia giusto fare così». Ha ragione. I nostri figli ci guardano. Non scusa nessuno. Cerca di capire. Anche lei a voce bassa. Non ha bisogno di forca. Ha bisogno di un mondo più civile. Dà il suo contributo, individuale, in un momento in cui se schiumasse rabbia nessuno potrebbe biasimarla. Non lo fa. Non vuole farlo. «Non sono amareggiata per la strumentalizzazione di Salvini, ma, essendo lui un ministro, mi demoralizza il suo modo di alimentare e di spargere ignoranza in un Paese dove credo che ce ne sia già abbastanza». Quanto incidiamo noi, quanto incidono i nostri comportamenti individuali, di fronte alla fotografia impietosa e disperante del Censis? Molto. Perché il sonnambulismo di sistema registrato dall’istituto di ricerca, «non è imputabile solo alle classi dirigenti, ma è un fenomeno diffuso nella maggioranza silenziosa degli italiani, resi più fragili dal disarmo identitario e politico, al punto che il 56% di noi (il 61,4% tra i giovani), è convinto di contare poco nella società». Sei giovani su dieci si sentono ai margini. Un’enormità. Un’emotività depressiva, giustificata da retribuzioni sempre più basse, prospettive professionali atrofizzate, che la politica ombelicale dei nostri giorni invece di contenere con risposte mirate, amplifica, manipola e strumentalizza. Fingendo di ignorare che larga parte dei temi che considera divisivi sono stati già analizzati e digeriti da un corpo sociale che, proprio a partire dalle nuove generazioni, è mille chilometri avanti e invoca il salario minimo, lo ius soli, lo ius culturae, l’eutanasia e persino le adozioni da parte dei single in percentuali bulgare, segnalando la necessità di uno scatto culturale quale presupposto di un salto economico e di benessere condiviso. Voci nel deserto, che rendono appunto “siderale” la distanza tra le generazioni. I 18-34enni, d’altra parte, sono poco più di dieci milioni (il 17,5% della popolazione totale), mentre venti anni fa erano oltre tredici milioni (il 23% del totale) e nel 2050 saranno appena otto milioni (il 15% degli abitanti di questo Paese). Stiamo invecchiando. E lo stiamo facendo male. Torna in mente Paul Verlaine: «Sono l’impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi barbari bianchi, componendo acrostici indolenti, in uno stile d’oro, dove danza il languore del sole». C’è un’aria da tregenda. Ma ci sono anche Manuela e il marito di Laura. Dobbiamo ricostruire in fretta il patto sociale. Tocca a noi scegliere che cosa vogliamo diventare e soprattutto chi vogliamo essere.