Sul Manifesto – Intervista a Jeremy Rifkin: «Le forze di destra che lo attaccano sono prive di idee, quindi fanno leva sulla paura, l’odio e l’ignoranza»

A cura di Giorgio Vincenzi

Jeremy Rifkin, 80 anni appena compiuti, è un economista e sociologo tra i più influenti al mondo. Uno dei principali artefici dei piani economici dell’Unione europea e della Cina per la transizione a una Terza Rivoluzione Industriale che affronti il cambiamento climatico. In Italia è stato consulente per il ministero dell’Ambiente e collabora dal 2008 con la Fondazione UniVerde. È autore di oltre venti libri tradotti in trentacinque lingue.

L’ultimo è Pianeta Acqua (Mondadori, euro 22) nel quale pone una domanda cruciale per la vita dell’uomo: «Che cosa accadrebbe se un giorno ci svegliassimo e il mondo in cui viviamo ci apparisse stranamente alieno, come se fossimo stati teletrasportati in qualche pianeta remoto?»

Rifkin, fantascienza o è un nuovo modo di vedere il nostro pianeta?

È una nuova visione del mondo! Ma non comincia oggi. La svolta avvenne il 7 dicembre 1972. Mentre l’Apollo 17 era in viaggio verso la Luna, uno degli astronauti fece una foto del nostro pianeta da 45.000 chilometri di distanza. Quella foto cambiò il nostro modo di vedere la nostra casa nell’Universo. Fino ad allora avevamo creduto di vivere su un pianeta di terra con tutte le sue lussureggianti sfumature di verde, mentre quel giorno ci risvegliammo alla realtà che viviamo su un pianeta di acqua, di colore blu con il verde limitato solo ad una modesta patina superficiale. Il 24 agosto 2021, l’Agenzia spaziale europea introdusse il termine Pianeta Acqua. Anche la Nasa, sul suo sito web, concordò affermando che «guardando la nostra Terra dallo spazio, è ovvio che viviamo su un pianeta acquatico». La famiglia umana sta dunque iniziando a rendersi conto, seppur tardivamente, che l’idrosfera è il motore primario che rende possibili la litosfera, l’atmosfera e la biosfera, e che l’acqua è fonte di vita. Quello che stiamo vivendo è la fine della geopolitica tradizionale che ha accompagnato la Prima e la Seconda rivoluzione industriale nei due secoli passati, la fine di un’epoca in cui l’acqua è stata considerata non fonte di vita, ma un bene economico da sfruttare e privatizzare. Sia chiaro, la geopolitica tradizionale continua a farsi sentire anche in questo secolo, con nazioni in lotta tra loro in un contesto globale sempre più pericoloso, quel contesto che ha generato le due guerre mondiali con decine di milioni di morti. Diventa dunque sempre più evidente che la salvezza per la specie umana sta nel realizzare una nuova governance basata non su artificiali confini nazionali, come la geopolitica imporrebbe, ma su comuni interessi bioregionali.

Questo a cosa può portare concretamente?

Per esempio il Mediterraneo andrebbe governato come una bioregione da tutti i Paesi che si affacciano sulle sue sponde, come già avviene nella Regione dei Grandi Laghi e la Cascadia fra Canada e Stati Uniti. Questa governance bioregionale non è una opzione fra tante, ma è l’unica salvezza per il genere umano. Altre bioregioni nel mondo stanno già mettendo in campo governance bioregionali multinazionali. E i Paesi più potenti del mondo, durante la presidenza italiana del G7, per iniziativa della presidente Meloni, hanno approvato al vertice di Borgo Egnazia (Brindisi) la creazione di una Coalizione dell’Acqua (Water Coalition), che si propone di prendere posizioni comuni su risorse idriche, ecosistemi acquatici e protezione dei corpi idrici strategici, per tutelare l’idrosfera e promuovere il Blue Deal su scala mondiale.

Sul «Pianeta Acqua», secondo lei, si dovrebbe tralasciare l’indicatore del Prodotto Interno Lordo (PIL) per sostituirlo con gli indici di qualità della vita. Non è un azzardo?

Facciamo un salto indietro per contestualizzare correttamente la questione del PIL come indice di valutazione della salute di una economia. Bob Kennedy nel suo famoso Discorso sul PIL del 1968, ci ricordava che «il PIL comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le autostrade dalle carneficine. Comprende serrature speciali per le nostre porte e prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende la distruzione delle sequoie e la scomparsa delle nostre bellezze naturali nella espansione urbanistica incontrollata. Comprende il napalm e le testate nucleari e le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane, mentre invece non tiene conto della salute dei nostri ragazzi, della qualità della loro educazione e dell’allegria dei loro giochi. Non include la bellezza delle nostre poesie e la solidità dei nostri matrimoni, l’acume dei nostri dibattiti politici o l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione per la nostra nazione. In poche parole, il PIL misura tutto eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta». Teniamo presente che il mondo a quell’epoca era ben diverso da quello attuale. La sua economia era basata su modelli di produzione sottrattiva che per creare i prodotti finali distrugge e spreca enormi quantità di materiali, energia e risorse naturali, con un elevato costo entropico.

Oggi che senso ha?

Nei processi produttivi della Terza Rivoluzione Industriale invece ci sono tecnologie cosiddette «additive», che producono cioè case, automezzi, oggetti, prodotti, addizionando strati su strati attraverso il sistema della stampa 3D, con sprechi prossimi allo zero. Per esempio la stampa 3D di una casa è realizzata «addizionando» materie prime, come argilla, sabbia, calcare, metacaolino, adobe, cellulosa, seta e scarti edili riciclati, disponendole come previsto dal software in tempi rapidissimi. Proprio in Italia, il mio amico Mario Cucinella, architetto visionario e rivoluzionario, ha realizzato la prima casa stampata in 3D in argilla ricavata interamente da materiali disponibili localmente. La casa è stata realizzata dalla stampante in 200 ore, con pochissimi scarti. Cucinella ha spiegato che «la tecnologia additiva permette di realizzare case sostenibili e di affrontare la grande questione globale dell’emergenza abitativa, in particolare nel contesto delle crisi urgenti generate, ad esempio, da grandi migrazioni o disastri naturali». Cucinella crea dunque un nuovo modello di scambi commerciali di beni stampati in 3D basato non più su una logica di mercato «venditore-acquirente» ma su una logica di rete fra «fornitori e utenti», passando da una economia «global» a una economia «glocal» sostenibile e circolare. Bene: in questa nuova economia «glocal», il PIL, che come sistema di valutazione del benessere economico già era inadeguato al tempo di Bob Kennedy, non ha veramente più alcun senso, perché sono cambiati i valori dell’economia che dovrebbe misurare, che non sono più quelli più del profitto estremo e della produttività esasperata alimentata da energie inquinanti come il carbone, il petrolio, i fossili e il nucleare, ma sono quelli della sostenibilità, della ricchezza distribuita e della circolarità.

Con l’insediamento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti l’impegno di uno dei paesi più importanti nella lotta ai cambiamenti climatici viene a mancare. Peraltro, è già in atto il ritorno ai combustibili fossili. Come valuta quest’ultima presa di posizione?

Come ha appena ricordato il mio direttore europeo Angelo Consoli alla Venice Climate Week di inizio giugno, i combustibili fossili sono diventati ormai una catastrofe economica prima ancora che ambientale e climatica. Infatti secondo il rapporto annuale di Lazard (una delle maggiori banche di investimento del mondo), l’LCOE di tutte le fonti energetiche rinnovabili è crollato stabilmente al di sotto dell’LCOE di tutte le fonti energetiche fossili e fissili. L’LCOE è una valutazione economica del costo medio totale di costruzione e gestione di un asset per la produzione di energia per tutta la durata della sua vita diviso per la produzione totale di energia dell’asset per quella stessa durata. Questo, come ricorda la Carbon Tracker Initiative (un think tank dell’industria energetica basato a Londra) farà diventare stranded assets (investimenti irrecuperabili, ndr) migliaia di miliardi di dollari investiti nelle fonti fossili. Un gruppo di esperti americani ha calcolato che oltre 100.000 miliardi di dollari potrebbero finire carbon-stranded (investimenti fossili non recuperabili, ndr) entro la fine del decennio, provocando la più grande bolla economica della storia. Per queste ragioni, settori industriali chiave in tutto il mondo si stanno sganciando dai combustibili fossili per affidarsi alle energie rinnovabili e alle altre tecnologie a zero emissioni, come l’idrogeno, il cui costo è in continuo calo.

Quindi il giudizio qual è?

Alla luce di queste considerazioni posso rispondere con certezza che la strategia energetica di Trump – drill baby drill! (trivella baby trivella!, ndr) – al pari di tutte le sue strategie economiche, è, come ci ricorda sempre Angelo Consoli, «una strategia suicida che è possibile solo grazie ai cosiddetti SAD (o Sussidi Ambientalmente Dannosi), calcolati dal fondo Monetario Internazionale, nella cifra pazzesca di 7.000 miliardi di dollari l’anno, i quali se riorientati verso politiche sostenibili, sarebbero sufficienti a garantire tutti gli investimenti previsti dalle strategie europee per la transizione energetica ed ecologica. Quella di Trump, è dunque una strategia che non verrà seguita nemmeno dagli Stati Repubblicani che invece hanno tutto da guadagnare dagli investimenti previsti dall’IRA (Inflation Reduction Act) di Joe Biden, che Trump si guarderà bene dal toccare se non vuole essere attaccato innanzitutto dai suoi».

La politica dei dazi di Trump quali ricadute avrà sul nostro Pianeta?

Cominciamo col dire che Trump non ha nessuna visione politica da proporre al paese e al mondo. Le sue proposte sui dazi sono contraddittorie, inefficaci e dannose per la stessa economia americana. Ma analizziamo più attentamente quello che sta succedendo: la guerra dei dazi voluta da Trump appartiene a una situazione geopolitica superata. Sulla scena globale, si sta rapidamente affermando una Terza Rivoluzione Industriale nella quale i dazi non hanno più senso perché le aziende di tutto il mondo non spediscono più manufatti industriali prodotti con tecnologie sottrattive, ma inviano solo file digitali che permettono di stampare localmente in 3D quei manufatti a un costo marginale prossimo allo zero. Il trasferimento di file digitali utilizzati nella produzione additiva non è soggetto a dazi a differenza del trasferimento dei beni fisici. La nuova piattaforma produttiva additiva, cioè di beni stampati in 3D, sta sovvertendo due secoli di «produzione sottrattiva». In altre parole, stiamo passando dalla seconda alla terza rivoluzione industriale.

E questo cosa comporterà?

Questo comporterà implicazioni economiche enormi per tutti dal grande al piccolo. Infatti mentre un numero crescente di aziende del gruppo Fortune 500 (tra cui Avio Aero, Airbus, Siemens, Volkswagen, Boeing, Medtronic, General Electric, Caterpillar e BASF), sta sperimentando l’uso di tecnologie di stampa 3D, le piccole e medie imprese dal canto loro non sono escluse dalla festa perché facendo ricorso a tecnologie altamente innovative, saranno impegnate in una fitta rete di scambi economici tra settori e continenti, evitando gli elevati costi dei trasporti marittimi, aerei e terrestri, della logistica e tutti i dazi doganali. Nel 2024, il costo logistico globale del trasporto merci via mare, aria e terra era stimato in 12.800 miliardi di dollari, pari all’11,6% del PIL di quell’anno. D’altro canto, ridurre la movimentazione via mare, aria e terra, di prodotti fisici in tutto il mondo, significa ridurre drasticamente i costi aziendali e il prezzo di vendita di beni e servizi in ogni continente. Inoltre, Deloitte (azienda di servizi e consulenza, ndr) ha riferito che durante la pandemia di COVID-19 le aziende che hanno utilizzato la stampa 3D sono riuscite a «ridurre i tempi di consegna di un sorprendente 70% rispetto a quelle che, per la consegna dei di prodotti a clienti e consumatori, si erano affidate alle catene di fornitura tradizionali». Inoltre, la riduzione del trasporto merci via mare, aria e terra, contribuisce a ridurre in maniera sostanziale le emissioni di gas serra, il riscaldamento globale e i processi di rinaturalizzazione selvaggia dell’idrosfera con i devastanti fenomeni meteorologici che tutti conosciamo e che paralizzano il traffico marittimo, aereo e terrestre in tutto il mondo e indeboliscono a un ritmo sempre crescente, la logistica e le catene di approvvigionamento e il commercio mondiale, mettendo in pericolo la vita umana e animale sul pianeta.

Nell’Unione Europea si fa sempre più strada la voglia di rottamare il Green Deal. Cosa ne pensa?

Francamente tutta questa voglia di rottamare il Green Deal Europeo io non la vedo. Anzi, l’Ue sta raddoppiando la posta: non solo non sta ritirando o annacquando le strategie del Green Deal, ma si sta impegnando anche in un Blue Deal per proteggere l’idrosfera e sta anche proponendo nuove strategie come il Clean Industrial Deal per reindustrializzare l’economia europea, combinando crescita e decarbonizzazione e rendendo più competitive le imprese europee su scala globale. È vero che alcune forze politiche – principalmente di destra – hanno cominciato ad attaccare il Green Deal ma è solo perché non hanno, non dico una visione economica e politica nuova, ma nemmeno uno straccio di idea originale da proporre al pubblico e quindi sono costrette a far leva su sentimenti irrazionali: la paura, l’odio, l’ignoranza. Sì, perché bisogna essere davvero ignoranti in materia per ridurre il Green Deal a burocrazia o ideologia. Infatti, se andiamo a vederle da vicino le critiche alle strategie europee sul Green Deal, si riducono a una presunta burocrazia eccessiva e a un preteso «ideologismo ambientalista». Francamente fanno ridere. Credo che sia venuto il momento di dirlo chiaro e forte: il Green Deal è una visione nuova per l’economia mondiale che crea ricchezza e occupazione rispettando principi di sostenibilità e gli ecosistemi. Oggi, alla fine della Seconda Rivoluzione Industriale, le prime 500 aziende globali fortemente centralizzate, costituiscono un terzo del PIL mondiale, hanno un fatturato superiore a 41.000 miliardi di dollari e un bacino di occupazione inferiore a 65 milioni di lavoratori su una forza lavoro globale di 3,5 miliardi di persone. E mentre oggi il 44% della razza umana vive al di sotto della soglia di povertà, con un reddito medio giornaliero di 6,85 dollari, i dieci individui più ricchi della Terra possiedono una ricchezza complessiva stimata in 1.900 miliardi di dollari. Tutto questo non è più sostenibile.

È una visione condivisa?

Non lo dico solo io: questa visione è condivisa anche dalle principali autorità accademiche e scientifiche e da ultimo, ma non meno importante, dalle massime autorità vaticane. Infatti, come ricordava proprio dalle pagine de il manifesto il professor Livio De Santoli qualche settimana fa, le encicliche Laudato Si’ e Fratelli Tutti del compianto Papa Francesco hanno tradotto i principi della Transizione Ecologica promossi dall’Europa in una nuova visione globale, conosciuta come Ecologia Integrale. Coloro che stanno attaccando il Green Deal, dovrebbero avere il coraggio di schierarsi anche contro la visione introdotta da Papa Francesco e confermata con forza da nuovo Papa, Leone XIV. Ma non credo che lo faranno.

Il Green Deal è quindi una strada maestra per lo sviluppo dell’Europa?

Il Green Deal è una intuizione geniale dell’Unione europea per dare un nuovo slancio all’integrazione europea, che riuscirà anche a risolvere il problema più grave dell’economia europea e mondiale: quello della disoccupazione. Infatti le nuove tecnologie del Green Deal hanno un’altissima intensità occupazionale per ogni unità di capitale investito, e creano molti più posti di lavoro di quelli che fanno scomparire. Solo che, come ricorda sempre il professor De Santoli, si tratta di figure professionali che ancora non esistono e che vanno create con uno sforzo formativo supplementare che deve vedere protagonisti gli enti locali, l’accademia, la scuola, l’impresa, perché per ogni posto di lavoro perso nell’economia fossile – per esempio nel settore delle macchine col motore endotermico o dell’edilizia e della manifattura tradizionali – si creano molti più posti di lavoro nei settori della transizione ecologica – come le auto a idrogeno, il trasporto elettrico, le infrastrutture di tutti i settori economici dall’edilizia, all’agricoltura, all’economia circolare, al trasporto marittimo, su ferrovia, aeronautico e su strada -. Quindi se l’alternativa è da un lato una transizione ecologica «green» per una Europa di pace e prosperità ispirata da Altiero Spinelli, in grado di creare ricchezza distribuita e occupazione, rispettando l’ambiente e il clima, e dall’altro lato tornare indietro verso una vecchia politica fossile insostenibile, che distrugge occupazione e concentra ricchezza solo nelle mani di pochi grandi gruppi, come vuole Trump, secondo voi cosa sceglierà l’Europa di Sanchez, Macron, Merz, Ursula von der Leyen?