Oggi ricorre i 120 della nascita di Adriano Olivetti. Lo ricordiamo con uno scritto di Giuseppe Lupo

Adriano Olivetti (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle, 27 febbraio 1960) è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano, figlio di Camillo Olivetti (fondatore della Ing. C. Olivetti & C., la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere)[1] e Luisa Revel e fratello degli industriali Massimo Olivetti e Dino Olivetti.

Uomo di grande e singolare rilievo nella storia italiana del secondo dopoguerra, si distinse per i suoi innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui il profitto aziendale deve essere reinvestito a beneficio della comunità (Su Wikipedia)

L’eredità di Adriano e il Novecento che non abbiamo avuto (Sole 24 Ore – 10 aprile 2021)

di Giuseppe Lupo

Dovrebbe invitare a una riflessione il fatto che ogni occasione torni utile per ricordare la figura di Adriano Olivetti, nato l’11 aprile di 120 anni fa, a Ivrea. Non credo si tratti solo di un’esigenza celebrativa, piuttosto il segnale di una necessità: quella di rinnovare il magistero di un uomo (e di un’esperienza) che possiede contorni originali sia per il modo di interpretare il ruolo di imprenditore, sia per lo spessore che la sua azienda, anche a distanza di parecchi decenni, continua a testimoniare. Olivetti è diventato un “classico” del Novecento, icona di un secolo che ha investito la sua credibilità nel progresso tecnologico, nell’industrializzazione del Paese, salvo poi accorgersi delle molteplici inadempienze; un classico, mi verrebbe da dire, alla maniera in cui si trattano i fenomeni della cultura, figli di un determinato tempo, tuttavia capaci di travalicare il passaggio di millennio e proporsi nell’attuale panorama in veste di protagonista ancora tutto da decifrare. Probabilmente questa sensazione è suffragata dal bisogno di cercare e trovare, in un periodo di forte disorientamento come il nostro, qualcosa che venga dal passato recente, ma sia fuori dagli schemi convenzionali, qualcosa che contenga una potenziale direzione verso cui indirizzare i nostri sforzi.

Olivetti, di questa potenziale direzione, costituisce una validissima esemplarità. Ciò spiega il motivo per cui le sue opere continuano a essere riproposte da Edizioni di Comunità, che è diretta emanazione della Fondazione Adriano Olivetti, istituita per volere della famiglia nel 1962, due anni dopo la morte di Adriano, con l’obiettivo sia di garantire la prosecuzione e il compimento delle attività promosse dall’imprenditore di Ivrea, sia di raccogliere e sviluppare il suo impegno civile, sociale, politico.

Proprio in questi giorni giungono in libreria il primo e il secondo volume della trilogia che è stata pubblicata a distanza di pochi anni, nel 1945, nel 1952 e nel 1960. Mi riferisco a L’ordine politico delle Comunità (a cura di D. Cadeddu, p. 360, euro 18) e a Società Stato Comunità (a cura di D. Cadeddu, p. 200, euro 16): due libri illuminanti circa il progetto di riorganizzazione dello Stato italiano all’indomani della svolta resistenziale e della Repubblica. Il terzo volume di questa trilogia, Città dell’uomo, prossimo anch’esso alla pubblicazione, va considerato il testamento morale di Olivetti, essendo uscito quasi in concomitanza con la sua improvvisa morte, avvenuta nel febbraio del 1960.

Se guardiamo i primi due volumi di questa collezione, troviamo rappresentati i punti fondamentali del progetto politico che stava a cuore a quest’uomo condannato per le sue idee a un destino di solitudine.

Il nucleo fondamentale si trova nella nozione di Comunità: un’entità territoriale che non ha precedenti nel Novecento e che contiene tutti gli elementi per mettere in accordo individuo e gruppo sociale, persona e sentimento di appartenenza. Olivetti denuncia apertamente le fragilità dei moderni sistemi democratici, che si fondavano sul principio di rappresentanza ma, per quanto questo fosse un discorso innovativo nell’Italia post-resistenziale, presupponevano una sorta di incompletezza. Ciò che più gli premeva era proteggere e salvaguardare le ragioni di una libertà morale che i grandi partiti di massa, la Democrazia cristiana e il raggruppamento delle Sinistre, avrebbero potuto minacciare. Questo tema percorre entrambi i saggi, diventa una specie di scudo protettivo nei confronti di quei sistemi di governo che, pur nel rispetto delle regole parlamentari, rischiavano di schiacciare i bisogni della gente comune, le urgenze di un territorio. L’argomento poteva apparire provocatorio e forse anche paradossale perché minava la più elementare concezione di Stato repubblicano, così come paradossale sembrò la proposta di giungere a una democrazia senza partiti, sulla scorta forse di quanto aveva teorizzato qualche anno prima di lui Simone Weil, altro importante spirito di questo Novecento eversivo e profetico, a cui le Edizioni di Comunità prestarono grande attenzione, a partire dalla pubblicazione di La condizione operaia nel 1952, tradotta da Franco Fortini.

La Ivrea che produceva macchine da scrivere nell’immediato secondo dopoguerra va considerata il laboratorio di un pensiero politico che avrebbe potuto dare frutti migliori e aggiungere materia di discussione a una nazione che invece continuava ad appiattirsi sulle dualità e sulle contrapposizioni, pagando un pegno oneroso alle logiche che in quei decenni dividevano il mondo. Chissà come sarebbe stata l’Italia, se il pensiero di Olivetti avesse avuto il tempo e lo spazio per diventare fonte di discussione politica: è un argomento su cui si riflette ancora poco oggi. La medesima domanda dobbiamo porcela a proposito della fisionomia che avrebbe potuto assumere il nostro capitalismo, se l’esperimento di Ivrea e di Pozzuoli non si fosse interrotto bruscamente e tragicamente, lasciando una coda di riverberi, oltre che una enorme sequela di rimpianti. È chiaro che siamo di fronte a un’occasione mancata, l’ennesima di un Paese che subito dopo la guerra ha saputo modificare velocemente il proprio statuto identitario, diventando una società a tutti gli effetti progredita. Restano tuttavia le ombre non tanto sulla bontà di determinate scelte – una fra tutte: quella del 18 aprile 1948 –, piuttosto sui modi in cui correggere i tanti errori strutturali che, complici gli interessi di parte, le congiunture internazionali, sono stati commessi mentre si costruiva l’edificio del secolo in una nazione a forte eredità contadina e con uno sprezzante atteggiamento antiborghese. Se è vero che l’idea di una fabbrica comunitaria non è stata soltanto un sogno, se è stato possibile attuare, come leggiamo in Società Stato Comunità, «un nuovo ordine morale nell’industria», questo apre all’ipotesi di un altro Novecento, parallelo a quello che abbiamo conosciuto e probabilmente assai più moderno.